La gemma della stella verde
cavallereschi (il Falco della Terra che attacca i nemici cantando ballate guerresche, la
rapidità un po’ eccessiva con cui le astronavi volano da un mondo all’altro) raggiunge,
specie nella parte finale, un’atmosfera carica di cupa, angosciosa poesia: il nero mondo di
Malgarth, la concezione stupenda dello specchio geodetico, un lago di tenebre che ha il
poter di scagliare chi vi incappa al di fuori dell’universo, l’apparizione terribile del robot
gigantesco che, sull’orlo dell’ultima vittoria, teme ancora l’incarnazione del suo creatore, la
bellezza lucente e agghiacciante degli alati robot di argento, lo schermo di rossa forza
fiammeggiante che cinge Mystoon, al centro di una nebulosa nera (un’idea, questa del
volo attraverso una matrice di materia in formazione, che non solo lo stesso Williamson
sfrutterà in seguito, ma che verrà utilizzato, seppure in modo diverso, anche da van
Vogt). Anche il lettore più smaliziato, abituato alle satire polemiche di Pohl e di Tenn, al
freddo gioco inte1 lettuale di Dick e di Charbonneau, non potrà sottrarsi al fascino di
questa grandiosa epopea: sfruttando con raffinata astuzia la mozione degli affetti,
Williamson riesce a stringere la gola anche al più scettico degli appassionati. È un
risultato, questo, che non molti dei moderni romanzi di avventura fantascientifica riescono
a conseguire: il fatto che vi riesca un romanzo vecchio di quasi trent’anni depone a
favore della grandezza di Williamson e dell’intramontabilità dei suoi temi più cari.
Tellini
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