La donna che fuggì a cavallo
Una donna ancora giovane e insoddisfatta lascia marito e figli e si avventura da sola sulle
montagne messicane per incontrare gli indiani – discendenti da Montezuma e dai re
aztechi – che le abitano e conoscere i loro dèi. Le basta imboccare un piccolo sentiero
per inoltrarsi in un altro mondo, in un clima rarefatto e contagioso – esperienza, questa,
che persegue come in trance dall’esaltazione alla suprema indifferenza, oltre il dolore e lo
sfinimento, oltre la morte. Incontrerà i suoi indiani: sinuosi, insidiosi, femminei, feroci;
spaventosamente impersonali e, come quel mondo, inumani. Il vecchissimo capo le chiede:
«Porti il tuo cuore al dio dei Chilchui?». Rispondendo di sì, lei si dona e si abbandona
all’inconfessabile piacere dell’angoscia, alla sensazione acuta di effondersi nella superiore
bellezza e armonia delle cose. Ma «tutto ciò che è reale» – il sacrificio – rimane fino
all’ultimo non detto. Nell’intenso silenzio indiano la vittima si spoglia di ogni cosa. E in uno
scenario di ghiacci aguzzi, antri cavernosi e precipizi, mai descritto così vividamente, nel
giorno più corto dell’anno e l’ultimo della sua vita, al fuoco del tramonto conoscerà il dio.
Questo racconto, una gemma dai bagliori sanguigni, fu scritto da Lawrence nel 1925, al
ritorno da un viaggio in Messico che aveva segnato per lui una rivelazione. La donna che
fuggì a cavallo fu pubblicato per la prima volta nel 1928.
Virelli