Una coppa piena di stelle
Robert F. Young si ripresenta con un’altra selezione di racconti, caratterizzati dalla stessa
lieve ansia di poesia e dalla stessa malinconica grazia che caratterizzavano Trenta giorni
aveva settembre. Ed è presente la stessa sfumata, remota ironia. Ma questa volta, quasi
sempre, è la malinconia ad avere la meglio. La malinconia, ed una tensione particolare,
una nostalgia per la fiaba e la leggenda. Questo non impedisce ai racconti di
rappresentare esempi corretti e del tutto ortodossi del science-fiction. Nessuno di loro è
improntato ad una fantasia del tutto libera, avulsa dalle regole del gioco fantascientifico.
Le componenti che li rendono affini alle fiabe e alla leggenda non sono metodologiche,
sono sentimentali. Non è il congegno che sa di fiaba e di leggenda: è l’atmosfera. E
questa atmosfera sopraffà a volte la delicata, sotterranea ironia e porta allo scoperto più
forti impulsi drammatici. Basta considerare L’Albero, una sinfonia dolorosa lanciata in un
inarrestabile crescendo verso una conclusione drammatica: drammatica, non tragica,
perché Young rifiuta l’essenza della tragedia, e così scopre che alla fine il delitto
consumato da Tom Strong era un pietoso gesto di eutanasia; basta considerare I miei
occhi hanno visto la gloria, un tema che sarebbe piaciuto pazzamente a Bob Sheckley, il
quale l’avrebbe trattato con aperto sarcasmo, mentre Young, in perfetto equilibrio tra
ironia e fede, lo risolve con puntiglioso scrupolo, dilatandolo a dimensioni di pura leggenda.
Basta pensare a La stella del desiderio, in cui la violenta polemica contro la dittatura
militarista sfuma nello sfondo, per lasciare in primo piano gli elementi intensamente lirici.
Più apertamente drammatica la conclusione de I passi dei grandi, ma temperata dalla vena
di umile, semplice poesia intessuta nelle brevi pagine del racconto. Più apertamente
ottimista, la sua controparte, Quel che successe su Venere, un po’ trasparente e voluta
nella trama, ma aggraziata da particolari così leggiadri e spiritosi (l’intervento dei
venusiani) da acquistare una sua originalità inconfondibile. Forse la ricerca della poesia, in
Young, può essere accusata di qualche forzatura. Forse è facile imporre al lettore la
certezza di stare leggendo un’opera di poesia quando gli si rovesciano addosso torrenti di
fiori e di laghi azzurri e di alberi verdi e di dolci colline e di uccellini canori color
arcobaleno, e quando gli si presentano contadini e baristi che parlano con estrema
proprietà di linguaggio, sciorinando eleganti metafore e teorie elaborate. Forse Young ha
scelto una scorciatoia, per “fare della poesia”. È difficile stabilirlo. Comunque, si sente
fremere, in ogni sua parola, una sincerità, un abbandono autentici. E, a questo punto, si è
Tellini