L'ultima fortezza della Terra
È ormai una regola normale che i romanzi di Alfred E. Van Vogt abbiano una sorte
movimentata, e L’ultima fortezza della Terra, non fa eccezione. Van Vogt ne scrisse una
prima stesura nel 1942, con il titolo Recruiting station (Centro reclutamento) e l’invio a
Campbell, il direttore di Astounding. Il breve romanzo venne pubblicato, ottenne un buon
successo di pubblico: qualche anno dopo, nel 1950, venne pubblicata una versione,
intitolata Masters of Time (I signori del tempo) in un volume della Fantasy Press che
includeva un altro romanzo breve, The Changeling (quest’ultimo, a sua volta, doveva
essere ripreso, manipolato e integrato da Van Vogt, completato con l’inserimento di altri
racconti, tra cui il noto The engine, e ribattezzato The Beast). Dopo l’edizione della
Fantasy Press, la storia di Norma Matheson venne ripubblicata nel 1960 da Ace Books,
una delle più popolari collane americane specializzate, con il titolo Earth’s last fortress,
dopo che Van Vogt l’aveva attentamente riveduta, trovandosi tuttavia nella necessità di
ritoccarla soltanto in alcuni particolari di poco conto — soprattutto per quanto riguarda
l’epoca in cui gli avvenimenti descritti dal romanzo hanno inizio. In verità, se molte cose si
possono dire pro e contro la produzione di Van Vogt, è indiscutibile che le sue vicende
sono così abilmente avulse dalla realtà contemporanea e così abilmente integrate in un
tessuto temporale vicino all’assoluto che ben difficilmente invecchiano; e quindi escludono
la necessità di massicce operazioni di rammodernamento e di restauro. Earth’s last
fortress, modificato in non più di cinquanta parole rispetto alla sua precedente versione
non denuncia affatto la propria età: una volta che si accetti come base la fervida
fantasia vanvogtiana, questo romanzo — come del resto gli altri dello stesso autore — è
completamente autosussistente; mentre la produzione di altri scrittori, ad esempio il più
ortodosso e più famoso Heinlein, risente, almeno in una certa misura, dell’usura del tempo,
ed è sempre agevole da «datare». Assolutamente vanvogtiano nel suo ambizioso impegno
di descrivere eventi ciclopici, guerre che hanno per posta la distruzione o la
conservazione dell’universo, forze ipotetiche, affascinanti quanto improbabili, esseri e
macchine dotati di facoltà inimmaginabili, L’ultima fortezza della Terra, rimane tuttavia un
esempio abbastanza infrequente nella produzione di Van Vogt. Innanzi tutto, protagonista
una donna, Norma Matheson. Altre volte Van Vogt ha creato ruoli importanti per i suoi
personaggi femminili; Innelda, Gloria Cecilia, Ineznia, donna Lydia hanno parti-chiave in
alcuni dei suoi romanzi più celebri, ma pur sempre accanto a protagonisti maschili. Norma
Matheson, invece, è una protagonista assoluta e, a differenza delle sue consorelle, non è
una personalità orgogliosa e inflessibile, degna paredra dei consueti superuomini
vanvogtiani, ma una creatura sconfitta, che si presenta a noi sull’orlo d’un suicidio che
però non oserà compiere e che, poco prima della conclusione, punterà tutto il suo potere
incredibile, indesiderato e tremendo, sul solo scopo di richiamare a sé, attraverso
quadrilioni di anni, l’uomo che ha oscuramente e umilmente amato e del quale invoca la
vicinanza e la protezione. Sgomenta, disperata, incerta, femminilmente timorosa della
minaccia che i Gloriosi fanno incombere su di lei — e Van Vogt sfoggia qui un sottile e
felice intuito psicologico, escogitando un magico ringiovanimento come premio per
l’acquiescenza ai voleri dei «signori del tempo» e un magico invecchiamento come
punizione per le istintive, insensate ribellioni — eppure vagamente e cocciutamente tesa
verso la realizzazione del suo semplice ideale, Norma Matheson è probabilmente la più vera
e la più attraente tra tutte le eroine di Van Vogt: accanto a lei, Jack Garson ha già i
freddi sbigottimenti e la razionalità distaccata dei futuri eroi positivi vanvogtiani,
inconsciamente crudeli, e il dottor Leli anticipa i futuri eroi negativi, infatuati nei loro sogni
di ciclopica egemonia: ma Norma Matheson è rimasta unica. Un’altra caratteristica
particolare di questo romanzo — in tutte le sue versioni, derivate da una comune base
vecchia ormai di più di venti anni — è il suo linguaggio: più fresco e più vivido, più
movimentato ed elegante, che successivamente doveva purtroppo smussarsi piegandosi in
formule più prevedibili, forse a causa dell’usura provocata da una produzione massiccia,
per venire compensata, almeno in parte, da una più pirotecnica inventiva, da una
vertigine più febbrile di trovate suggestive.
Tellini