Gli schiavi del non-A
È impossibile tentare una definizione della produzione vanvogtiana tale da accontentare
tutti i lettori: già una introduzione che si era limitata a riferire le critiche e gli elogi di
esperti celebri è sembrata, agli entusiasti di questo autore, una offesa al loro beniamino,
come testimoniano numerose lettere ricche di sottolineature che invocavano lodi
incondizionate allo scrittore canadese; e, a coloro che non lo possono soffrire, è parsa un
immeritato elogio. Si può dire senz’altro che Van Vogt è l’autore di fantascienza che più
di ogni altro ha scatenato attorno a sé polemiche violente tra esaltatori e detrattori,
egualmente accaniti; e questa è in ogni caso una dimostrazione di vitalità non indifferente
e di vasti motivi di interesse nella sua produzione.
Questo romanzo, The pawns of Null-A, è il seguito, se possibile ancora più vorticoso di un
altro romanzo notissimo, The world oj Null-A, del quale è apparsa un’edizione italiana una
decina di anni fa. Qui tutte le fila momentaneamente abbandonate dall’autore nel
momento in cui Gilbert Gosseyn riconosce di essere il simulacro vivente di Lavoisseur
vengono riprese, ingarbugliate, separate, ritessute in una tela che si estende
compiutamente ad abbracciare un intero universo, come si conviene alla mentalità
cosmica e apocalittica di Van Vogt. È chiaro che la teoria della Semantica Generale, che
Van Vogt idoleggia in questo come in altri romanzi, è considerata con sospetto — per dire
poco — dalla scienza e dalla filosofia ufficiale. E’ vero, come afferma vigorosamente Van
Vogt, che la filosofia aristotelica ha fatto il suo tempo: anzi l’esagerata fedeltà a essa per
quasi due millenni ha intralciato e forse addirittura ritardato il progresso; molto più dubbio
è che alla filosofia aristotelica non vi sia altra alternativa se non quella miracolistica
proposta da Van Vogt: il quale, espertissimo teorizzatore di dianetica, di ipnotismo e di
parapsicologia, per contro sul piano filosofico non trova i meglio che superare la
concezione aristotelica in nome d’una concezione fondamentale molto simile a quella del
presocratico (e quindi prearistotelico) panta rhei. Rimane indiscutibile, comunque, che
partendo da presupposti del genere, Van Vogt riesce sempre a tracciare affreschi cosmici
di capzioso fascino e di grande vivezza. La sua narrazione non ha mai un attimo di
cedimento e si arricchisce ad ogni pagina di nuovi colpi di scena, in una suspense che
dura dalla prima all’ultima pagina d’ogni romanzo, anche se il lettore sa benissimo che
l’eroe vanvogtiano non può essere sconfitto e che, magari nelle ultime righe, otterrà
insieme la vittoria e l’apoteosi. La disinvoltura con cui, da abile stregone, getta nel
rilucente calderone della sua fantasia migliaia di anni-luce, quadrilioni di anni, centinaia di
migliaia di astronavi da battaglia e bilioni di esseri umani è già, di per sé, una sicura
garanzia di successo. Tentare di fornire un riassunto indicativo anche sommario della
trama de’ Gli schiavi del non-A, è impresa quasi impossibile: le agnizioni imprevedibili, le
inversioni di fronte, le introduzioni di fattori nuovi e inaspettati sono tali e tante da
rifuggire a ogni tentativo dl semplificazione: naturalmente, si scoprirà prima o poi che né
Glibert Gosseyn né Eldred Crang né la stessa Patricia Hardie (che pareva il personaggio
meno enigmatico di Anno 2560), sono ciò che sembravano o addirittura ciò che credevano
di essere: e i personaggi nuovi, rispetto al primo romanzo del ciclo, il Seguace, i Profeti di
Yalerta, il Dio Dormiente, contribuiscono a complicare il quadro, nell’esuberante e
precalcolato caos tipicamente vanvogtiano. In ogni caso, questo è un romanzo in cui
l’autore non applica la paziente logica costruttiva e l’appassionato tentativo di costruire
chiari ritratti psicologici come nel ciclo di Clane Linn, ma in cui per contro immette con
prodigalità tutti gli ingredienti più caratteristici della sua inventiva: un potere di
dematerializzazione simile a quello degli uomini-ombra, un teletrasporto degno di Ptath,
complicati intrighi politici non meno sottili di quelli dell’impero di Isher, l’intervento di una
macchina che ricorda quella della Casa senza tempo, superfacoltà mentali non troppo
diverse da quelli degli Slan, in una sintesi quasi completa dei vari e complessi motivi che
più gli sono cari. Quali che tossano essere le divergenze di giudizio dei lettori a proposito
di Van Vogt, resta comunque il fatto che questo romanzo è stato scelto per la nuova
serie di Galassia — che intende proporre soltanto i romanzi più significativi e più
rappresentativi della produzione fantascientifica proprio per questa sua caratteristica di
esprimere, appunto quasi in sintesi, tutte le componenti tipiche di una varietà che,
discussa e controversa quanto si vuole, resta una delle più clamorose e vistose della
narrativa di science fiction dell’ultimo ventennio.
Tellini