La pentola dell'oro
James Joyce sosteneva di formare con James Stephens una coppia di gemelli celesti «nati
alla stessa ora dello stesso giorno dello stesso anno nella stessa città». E Stephens
aggiungeva: «Sembra che il letto fosse differente, e questo fu il solo neo nei nostri
rapporti». Tanto forte doveva essere questa convinzione in Joyce che, in una lettera
scritta mentre disperava di poter mai finire Finnegans Wake, egli indicava in James
Stephens l’unico scrittore che eventualmente avrebbe potuto portare a termine il suo
lavoro. E ciò non solo perché questi disponeva in maniera prestigiosa di tutta la tastiera
mitica e fantastica dell’Irlanda, ma perché Stephens era anche lui dotato di una
formidabile abilità stilistica, di un orecchio rigoroso per il ritmo. Solo che la forma dei suoi
scritti è quanto di più diverso dall’ultimo Joyce; una semplicità apparente, una sviante
elementarità del linguaggio e dei temi si ritrovano in tutte le sue opere – poesie, racconti
e memorabili conversazioni alla radio – e così anche nel suo capolavoro La pentola dell’oro
(1912). Questo libro, che fin dal suo apparire si guadagnò dei fanatici ammiratori, è
pressoché indefinibile, ma di questa sua natura elusiva e polivalente il lettore si rende
pienamente conto alla fine, dopo essere passato attraverso una complicata storia che è
insieme un conte philosophique, un romanzo fiabesco dove compaiono dèi di varia origine
– come Pan e Angus Óg – un libro per bambini, un libro pieno di humour per gli adulti,
un’allegoria del difficile matrimonio fra intelletto e istinto.
Certo è che da questo strano impasto di elementi è nato un libro che il tempo ha reso
sempre più attuale. Walter de la Mare è riuscito felicemente a condensare in poche parole
il suo fascino: «Come almeno metà dei libri migliori è più che un po’ pazzo, e colmo fino
all’orlo di vita e di bellezza. È un inno al nonsense, e il vero nonsense è solo saggezza
rovesciata, che perciò è al di là della comprensione solo per un intelletto non saggio».
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