La nube purpurea
Immaginate un Robinson Crusoe che abbia per scena, invece di un’isola sperduta, il mondo
intero; in cui il protagonista, invece di sperimentare tutte le risorse del raziocinio, passi
per tutti i deliri di una solitudine allucinante, affollata di cadaveri e di relitti; immaginate
che le vicende del romanzo si svolgano dopo la fine del mondo, provocata da una
catastrofe di demoniaca sottigliezza, che estingue l’umanità conservandola immobile come
uno sterminato museo di cere, imbalsamata in un delicato profumo di pesca; e che la
narrazione di questa fine del mondo e dell’inizio di una nuova vita sia spinta da un soffio
epico, guidata da una continua lucidità visionaria; che il linguaggio assuma
successivamente cadenze, insieme ingenue e preziose, di stile Art Nouveau, il tono
asciutto del romanzo di avventure, l’impeto di una predicazione apocalittica; immaginate,
poi, un proliferare di strabilianti invenzioni, agevolmente amalgamate alla grandiosa visione
centrale, e avrete un romanzo che, scritto sul limitare del nostro secolo, ne prefigura con
perfetta esattezza il cronico incubo di essere il secolo ultimo, per scioglierlo in una storia
emblematica che congiunge rovina e rinascita, distruzione e principio. Pubblicato nel 1901,
riscoperto una prima volta, in America, nel 1928 – quando si arrivò a pubblicare quattro
romanzi di Shiel nello stesso giorno – e poi nel 1948, La nube purpurea è senza dubbio il
capolavoro di M.P. Shiel, la cui opera è stata esaltata da scrittori quali Arnold Bennett,
Hugh Walpole, H.G. Wells, Dashiell Hammett.
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