Agarttha e la sfida dei cinque
Bartoli ha una felicità di scrittura sorprendente per la sua giovane età; si tratta, infatti, di
una felicità che nasce da una padronanza dello stile, che potremmo dire «consumata». La
frase va dritta al segno, senza ingenuità palesi, sbavature, aloni di risonanza (non esiste
il compiacimento che, per lo più, trascina chi è agli inizi verso la palude retorica). È ovvio
che questo dono nativo giovi, in particolar modo, a una narrazione che rientra, con gli
opportuni ammodernamenti, nel genere avventuroso. Ma il lettore, intrigato, si può
legittimamente attendere di più: ossia che uno stile così netto, anziche limitarsi a una
piccola idolatria del fatto e della trama, venga applicato a un altro tipo di avventura,
quellà umana, al fine di renderci il ritratto di un tempo (il nostro) e di una generazione
ancora inesplorata (quella di Bartoli).
Il tema di questo romanzo per capitoli che nella dicitura risentono dei vecchi cantari
cavallereschi, si riassume ne Le meraviglie del possibile. È ancora la fiaba, con la sua
metafora della realtà, a suggestionare lo scrittore, quasi il suo sogno adolescente
intendesse proteggerlo, conservarlo nel suo bozzolo. Un'eco di antichità classica prende
forma con una forte nostalgia dello scavo interiore, anzitutto, ma che per la timidezza di
cui abbiamo fatto cenno, per la mancanza di un coraggio drammattco ad esporre l'io, si
risolve in un'esplorazione oggettiva. Assistiamo a un transfert. Bartoli si immedesima in
personaggi che scavano, per l'appunto, in un mondo remoto dei precordi, facendo venire
alla luce figure dotate di poteri demoniaci e con la capacità di mettere in crisi la realtà
attuale. Ma per chi riesce a leggere oltre le righe ripeto: affascinanti, incalzanti non è
difficile capire che Agarttha è lui, l'autore, per quanto esplorata nel suo sottosuolo, nei
suoi graffi ti, e incubi, e fantasie. Forse Bartoli non ha letto Verne né Salgari, tuttavia i
due grandi profeti dell'esotico e dell'anticipazione avvenirista sono ben presenti, sebbene
immersi nelle ampolle di una fantascienza retrospettiva. Ora, mentre attendiamo lo
scrittore su altri versanti magari degli utopisti anglosassoni, da Swift a Butler dobbiamo
chiederci quale mai sia la morale, dal momento che tutte le favole hanno una morale.
Possiamo rispondere: Bartoli tende a dire, autoprospettandosi, che l'umanità è una
sarabanda, una gran scena complicata e faticosa, da girone dantesco, dove la Storia non
ha un iter logico, ma un sovrapporsi di tempi, un miscuglio di date ed eventi che si
mischiano, per cui è difficile affermare: l'oggì è oggì. I giovani lettori di questa avventura
si tranquillizzino. Non li aspetta una rilevazione di concetti e messaggi. Dalla « Scoperta »
fino a « Il ritorno di Beth » sarà loro concesso di divertirsi coi personagggi, che mai li
fanno affondare nella noia, deviando nell'astruso. Il ruscello della vicenda scorre limpido,
sorgivo, e la circostanza che sul fondo si possano intravedere i significati che vanno oltre
la letteratura d'evasione, non è che un motivo di ricchezza in più, per chi vuole coglierlo e
farlo proprio. Nel Sottosuolo... Bartoli colloca la scoperta dei nuovi mondi che la
contemporaneità assegna invece alla scienza dell'atomo, all'astronautica, alla nuova
biologia. Questo romanzo, a ben vedere cavalleresco, ci descrive come un cielo
rovesciato, dove le galassie e le stelle ignote e lo stesso duello metafisico fra il behe e il
male acquistano le forme dei diciotto cavalieri e degli altri personaggi qui trattati con un
culto anche e la ritualità del negromante.
E un testo « a cui si prende gusto », e ben si accettano anche le inusitate macchinazioni
e terminologie: esse non sono tali da distrarci dalle più antiche aspirazioni del cuore
umano, dalle antiche ossessioni e terrori dell'uomo. Bartoli, un negromante che scrive per
virtù d'incantesimo. Lo attendiamo alla prova fra i disincanti della nostra realtà. Lo
attendiamo con fiducia.
Alberto Bevilaqua
Cottogni