C'era una volta un mondo
Sono quarantaquattro anni che Amazing Stories ha creato ufficialmente il “genere
science-fiction”. Ai posteri l’ardua sentenza se sia stato un bene o un male, per la
science-fiction, affrontare il giudizio del grande pubblico sotto forma di rivista tascabile (e
ancora oggi, per lo snobismo di molta critica, questo piccolo formato le costa una
qualifica di sotto-genere letterario). Quello che più ci interessa è invece il fatto che,
indubbiamente, la nascita delle riviste di science-fiction ha consentito alla stessa
science-fiction di riconoscersi, e a una foltissima schiera di scrittori di eccezionale validità
di trovare la loro naturale capacità di espressione e di imporsi. Di imporsi, appunto.
Perché il moltiplicarsi della produzione fantascientifica non soltanto è stato il più efficace
“termometro” del nostro tempo, con l’agitarsi delle nuove idee e lo studio sempre più
approfondito dei riflessi psicologici e sociali del progresso scientifico nella vita dell’uomo,
dalle epopee dell’esplorazione spaziale all’esistenza quotidiana, ma ha finito col permeare
di sé buona parte della stessa letteratura “maggiore”, il linguaggio e il costume. Questa
antologia di racconti è un doveroso omaggio ad Amazing. Una selezione accuratamente
dosata di racconti recenti e di “classici”, scelti questi ultimi, nonostante la “datazione”,
per un loro significato profondo e duraturo. Abbiamo, quindi problemi attuali e di sempre,
uomini, macchine, civiltà terrestri e aliene e mondi multidimensionali. E un fascino
inestinguibile. Apre la rassegna “Morte di un astronauta” di Walter Miller jr., il racconto di
un’agonia eroica e struggente, l’epopea spaziale rivissuta in chiave interiore, sullo sfondo
dell’incomprensione tra le generazioni con lo stabilirsi di un nuovo “status” sociale pronto a
banalizzare fulmineamente l’avventura. Quindi, un breve apologo di Ray Russell, “Amici per
la pelle”, l’inquietante e originale squarcio cronistico d’una civiltà anatomica imminente.
Poi, una lunga novella di Theodore Sturgeon, “La rupe che cammina”, che riprende i tipici
motivi di Simak della solidarietà e dell’amicizia tra gli uomini, ma con molti spunti originali e
un’ambientazione affascinante. Con David Bunch (“Diario sentimentale d’uno spazzino”) si
ritorna, sia pure brevemente, alla crudeltà: il mondo degli adulti è dipinto con tinte
paradossali, ma l’allegoria è straordinariamente efficace. Abbiamo poi due narrazioni
contrapposte, “I figli dell’uomo”, di Grey Benford, e “Sogno di vittoria” di Algis Budrys. In
ambedue i racconti, esseri umani, naturali o artificiali, vengono acquisiti, sia pure in tempi
e situazioni diversissime, alla intelligenza e alla dignità, e quindi ricacciati nel nulla. La
malinconia d’una silenziosa estinzione, o la ribellione a una condizione insopportabile di
ripulsa e un anelito a una paternità negata, due opere ben degne di allinearsi nel
“mainstream” letterario. “L’aggressore”, di John Sladek, è un breve racconto dal ritmo
galoppante, d’una ineffabile cattiveria non soltanto nei confronti del protagonista: una
sorta di serpente multidimensionale che si morde la coda facendo sberleffi al lettore. E
infine, “Il sipario scarlatto”, di Richard Matheson, un racconto giustamente famoso per la
delicata perfezione con cui sono descritti i sentimenti e le relazioni umane, in un giorno
supremo per l’umanità. Un’abilità narrativa, una vivida rappresentazione, una poesia, che
ne fanno un capolavoro indiscusso.
Tellini