Notti Fiorentine
La cornice è la seguente: una bella signora all'ultimo stadio del male che la consuma, è
distesa sopra un divano verde. Qualunque movimento fisico può esserle fatale: solo il
lavorio fantastico, distraendola, giova a mantenerla nel salutare irrigidimento della
persona. Il medico raccomanda, così, a Massimiliano, parlatore sbrigliato, di raccontare
alla bella tisica «strampalate storie di ogni genere», perché la malata, seguendo con la
mente la girandola di quelle fantasticherie, meglio sopporti la terribile condanna che la
incatena al suo letto di dolore. Heine, nella veste di Massimiliano, è quanto mai al suo
posto. La situazione escogitata eccita il suo estro che trova buona occasione per
scapricciarsi in una prosa tutta balzi e scatti, dove il filo narrativo è continuamente
abbandonato e ripreso, e le digressioni, inserendosi tra le parti disgiunte, a loro volta si
dirompono, svariano e si ricompongono. (...) Massimiliano racconta dei suoi amori per
donne quasi sempre irreali e fantastiche, evanescenti
immagini di sogno, scialbe figure di morte e morti profili di statue. Anche qui, come in tanti
altri frammenti narrativi e lieder e ballate di Heine, rivive il gusto romantico dello spettrale
e del macabro, dell'inconscio e del lugubre. Lo stesso episodio principale, il racconto di
Laurenzia, ha
qualcosa di orripilante: ella è un «Totenkind», la figliola di una morta, e nasce in
circostanze macabre; ella deve la vita ai ladri che rovistano la tomba dove è stata
sepolta viva, in istato di avanzata gravidanza, la madre. Mentre i malandrini sono intenti a
depredare la sciagurata contessa, questa dà alla luce la bimba. La donna «spira subito
dopo il parto e i
ladri la ricompongono nel sepolcro, portando via la neonata che consegnano alla loro
manutengola perché la allevi». Massimiliano stesso, divenuto l'amante di madamigella
Laurenzia, che dopo infinite peripezie va sposa a un generale bonapartista, racconta con
raccapriccio come quella bella
«figlia d'una morta» gli scivola nottetempo dalle braccia e danza a occhi chiusi in mezzo
all'alcova. (...) Di questi elementi lugubri c'è in tutto il racconto una compiacenza
eccessiva, quasi sadica…
Giovanni Necco