Tre cuori e tre leoni
J. B. Fletcher ha scritto che la fantascienza, come del resto buona parte della narrativa
contemporanea, ha notevoli affinità strutturali e ideologiche con il mondo allegorico. E’
praticamente impossibile riassumere qui le caratteristiche coincidentali, dall’agente
demonico all’ornamento cosmico, che la science fiction mutua dall’allegoria. Ma è il caso di
ricordare, tanto più a proposito data la natura di questo celebre romanzo di Anderson,
che ci troviamo di fronte a un testo il quale rappresenta una specie di versione speculare,
in senso fantascientifico, del romanzo medievale; e non per le troppo facili analogie
esterne, ma proprio per le sue strutture: la vicenda dominata dalla classica quest, o
ricerca mistica, l’impulso letteralmente demonico che spinge il suo protagonista, i paralleli
allegorici tra le Orde del Caos e la minaccia della Germania nazista. Ma se questa è
materia esemplare di speculazione, scendendo a considerazioni più accessibili bisogna
ricordare che questa storia di Anderson (apparsa in precedenza, in una versione più breve
su Fantasy e Science Fiction, che in Italia ebbe una traduzione sulla quasi leggendaria
Fantascienza Garzanti) si raccomanda al lettore non appassionato collezionista di saggi
estetici per le sue qualità più immediate: una vivacità d’invenzione senza appesantimenti,
una sotterranea carica di ironia e di autoironia che culmina proprio nella rappresentazione
d’un mondo in cui sarebbero possibili incantesimi e miracoli, un linguaggio nervoso e teso,
plastico ed immaginoso. Stare a rivedere le bucce del retroterra culturale di Anderson in
questa particolare vicenda, e analizzano criticamente sarebbe un esercizio divertente ma
sterile; certo, gli si può rimproverare d’aver fieramente mesco lato elementi di due cicli
diversi, quello arturiano e quello carolingio (più qualche prestito dalla mitologia
tedesco-scandinava), come può osservare da sé chiunque abbia letto Wace e il Boiardo,
Chrétien de Troyes e Geoffrey di Monmouth, Marie di Francia e la Chanson de Roland.
Tuttavia quando (facendo le debite proporzioni) si rilegge l’Eneide, non si è certo
immediatamente spinti a chiedersi come mai Enea possa amare e abbandonare Didone, se
è vissuto quattrocento anni prima di lei; e confusioni gigantesche e sacrileghe sul conto di
personaggi epici le hanno combinate molti altri autori classici: Stazio, per citarne uno
solo, in base a un criterio appena appena rigoroso meriterebbe la fucilazione, e
probabilmente anche Euripide e Sofocle: quindi, perché prendersela con Anderson? Perciò
è il caso di tralasciare scrupoli superflui e di apprezzare questo romanzo, il capolavoro di
Poul Anderson, ed uno dei più belli della science-fantasy, per quello che è: un’opera unica
nonostante i suoi confessati prestiti dai romanzi cavallereschi e da Un americano alla
Corte di re Artù, un romanzo d’una freschezza incantevole, d’una immediatezza
accattivante, delizioso e irripetibile, lontano dagli eccessivi forzati pseudocerebralismj e
dalla pseudopoesia che inquinano parte della fantascienza attuale, come dalle vistose
dabbenaggini della space-opera più diffusa.
Tellini